di Erika Facciolla (TuttoGreen)
L’idea era chiara fin da subito: promuovere la cultura dello scambio e della condivisione di beni e servizi in un’ottica di consumo collaborativo e circolare di comunità, con vantaggi economici, ambientali e sociali evidenti già nel breve termine. A distanza di qualche anno, la trasformazione innescata dalla Sharing Economy ha fatto tutto questo e molto di più. Ha reso possibile l’esplosione delle grandi piattaforme americane – Airbnb, Uber, Depop, ecc – ha creato filiere, abilitato nuovi servizi, dematerializzato beni e dato vita ad interi ecosistemi circolari.
A partire dal successo di Airbnb, ad esempio, sono nate realtà come CleanB&B – che supporta gli host nell’amministrazione e conduzione degli appartamenti – ma anche Guesty, che permette di gestire le abitazioni su tutti i portali del settore; per non parlare di prodotti come Keycafe, il box virtuale per gestire le chiavi dell’appartamento tramite un’applicazione che si installa direttamente sullo smartphone.
Insomma, nuovi bisogni che stimolano la creazione di nuovi servizi e trasformano radicalmente l’identità di alcuni settori, come turismo, food e mobilità, sulla scia di un processo evolutivo che a ben guardare è molto più culturale che economico.
A dominare questo scenario è anche una mutata percezione della dimensione spazio-temporale in cui maturano alcune esperienze. Proprio gli spazi (fisici e virtuali) sono i veri protagonisti di questo nuovo modo di intendere il concetto di abitare, vivere e lavorare all’insegna della condivisione. Basti pensare al fenomeno sempre più virale del coworking, del crow-founding, al car-sharing e a tutti quegli “ecosistemi” digitali e territoriali che hanno di fatto superato la dicotomia fra spazio analogico e digitale rendendo i confini tra un settore produttivo e l’altro sempre più labili e sinergici.
È la filosofia dello “sharing services” che non mette in circolo soltanto beni ma soprattutto servizi, saperi, competenze e tempo. Che connette individui, organizzazioni e comunità – anche con scopi e interessi differenti – nel flusso unico e dinamico della rete.
Il consumo che genera ricchezza
Ciò che l’economia collaborativa deve assolutamente essere in grado di fare è sintetizzabile in 5 punti:
- promuovere lo sfruttamento pieno delle risorse;
- abilitare tale possibilità su una piattaforma;
- gestire la circolazione di beni e competenze a partire dalle persone che le utilizzeranno;
- favorire collaborazione e relazioni alla pari tra i membri delle comunità;
- sfruttare al massimo le potenzialità della tecnologia digitale.
Gli analisti, inoltre, tendono a suddividere in 3 macro-categorie gli esempi più attuali di consumo collaborativo.
Il primo gruppo corrisponde a quello dei mercati di ridistribuzione. Un mercato di ridistribuzione, come per esempio Swaptree, è quello che si crea a partire da un bene usato da un precedente utilizzatore e ceduto a chi ne ha bisogno attraverso una catena di prestito continuo che viene promossa e gestita in remoto. I mercati redistribuitivi rappresentano forse l’applicazione più tangibile della regola delle 5 erre (ridurre, ri-usare, riciclare, riparare e redistribuire) perché allungano il ciclo di vita di un prodotto e riducono gli sprechi.
Esempi pratici sono le comunità open source e le piattaforme che sfruttano modalità di accesso distribuito a beni e servizi. Attraverso queste “strutture virtuali” si realizza un modello ibrido di mercato che riposiziona il concetto di “bene” a metà strada tra la proprietà e il dono. Ed è così che si disegnano nuove realtà ed esperienze sempre diverse.
Il secondo gruppo è quello degli stili di vita collaborativi. Si tratta di una filosofia del vivere la proprietà di beni e servizi in senso circolare e comunitario a 360°. Comprende, infatti, la condivisione di risorse economiche, di competenze e anche di tempo.
Traslochino, per esempio, è la prima piattaforma di sharing economy dedicata a traslochi, trasporti e sgomberi domestici. L’idea di condividere un servizio così richiesto è di tre studenti romani che hanno dato vita ad una community che mette in contatto chi ha bisogno di un trasloco con chi ha i mezzi e il tempo per aiutare a farlo. Scaricando la App si può trovare rapidamente il fornitore più economico e prenotare un servizio completo con pochi click.
Il terzo gruppo è quello dei prodotti a noleggio. In questo caso si paga una quota prefissata per poter utilizzare un prodotto senza necessariamente doverlo comprare. E può trattarsi davvero di tutto: dal trapano elettrico a un vestito alla moda. Qualsiasi cosa può entrare nel grande cerchio del pay-per-use.
A Milano tre amici hanno lanciato “MiMoto”, la prima eco-flotta in Italia di motorini a noleggio totalmente elettrica. Il servizio di moto sharing prevede prelievo e rilascio libero (del tutto simile a car2go, per intenderci) e la formula “più noleggi meno paghi” premia gli utenti fedeli con tariffe davvero vantaggiose.
E in Italia?
I dati che riguardano la crescita della sharing economy in Italia e in Europa sono incoraggianti, nonostante nel nostro Paese domini ancora un po’ di incertezza. Secondo il Digital Economy and Society Index (Dise) – l’indice della Commissione Europea che misura il grado di diffusione del digitale nei Paesi Ue – il nostro Paese occupa la terzultima posizione in classifica.
Il ritardo è dovuto soprattutto alla mancata digitalizzazione dell’economia e della società che frena l’accesso alle opportunità e ai servizi offerti dalla sharing economy. Nei Paesi dell’UE le stime parlano di un giro d’affari pari a 570 miliardi di euro entro il 2025 mentre in Italia il business generato dall’economia collaborativa potrebbe rappresentare l’1,3% del PIL entro lo stesso anno.
A fare da traino saranno soprattutto le piattaforme di condivisione dei servizi di trasporto (sharing-trasportation) come Uber, BlaBlaCar, Car2go, che come abbiamo visto stanno già ridefinendo l’identità del settore dei veicoli a noleggio.
La cooperazione, dunque, è la fonte di ispirazione principale dei nuovi modelli di economia collaborativa e le Banche del Credito Cooperativo ripropongono questo valore con la loro finanza civile e geo-circolare: le BCC valorizzano il risparmio dei soci e dei clienti, reinvestendolo sul territorio sotto forma di finanziamento dell’economia reale, generando inclusione e sviluppo sostenibile nel rispetto dei valori della finanza civile. Un modello di finanza basato sui principi della reciprocità, della partecipazione e dello scambio di risorse. Un modello che crea ricchezza, la trattiene nei territori e la distribuisce tra i membri della comunità che l’hanno generata.